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Quel tratto dell’Appennino campano meridionale, costituito da materiali calcarei e dolomie, compreso tra le Province di Avellino e Salerno, nonché la vallata che si adagia ai suoi piedi, sono denominati ancora oggi Monti Picentini e Agro Picentino, dal nome degli antichi abitanti del luogo: i Piceni.
Si tratta di una catena notevolmente elevata con le vette del Cervialto (m. 1.089), del Polveracchio (m. 1.790) e dell’Acellica (m. 1.657), ed è solcata da profonde valli boschive.
Proprio dal monte Acellica, in Irpinia, nasce un fiume, pure denominato Picentino, lungo24.5 Km, che attraversata una stretta gola presso Mercato di Giffoni, dove riceve il torrente Risicco e poi il torrente Acqua Bianca-Prepezzano, dopo aver bagnato una pianura formata da due alluvioni, sfocia nel Golfo di Salerno. La piana del Picentino, secondo le più attendibili tracce archeologiche, cominciò a popolarsi nei primi anni del sec.IX a.c., all’inizio cioè dell’età del Ferro. Ivi comparve allora una comunità villanoviana, legata ai grandi centri dell’Etruria meridionale costiera, non particolarmente ricca (a giudicare dall’immagine restituitaci dalle necropoli), dedita essenzialmente ad un’economia di sussistenza, senza evidenti differenziazioni sociali al suo interno. Essa è apparsa agli archeologi caratterizzata dal rito funerario prevalente dell’incinerazione, per il quale i resti del defunto erano conservati in un grande vaso di forma biconica, mentre nel resto della regione è stata rinvenuta di inumatori di tombe a fossa. Nel corso degli anni la realtà dovette evolvere e farsi più complessa: si sono notate infatti, nelle tombe più recenti, differenze di ricchezza nella composizione dei corredi e oggetti di importazione, segno della comparsa di individui e di gruppi di condizione privilegiata. Il territorio, dall’età preistorica fu abitato dagli «Opicoli» antica popolazione di lingua indoeuropea stanziata in Campania ancora in età arcaica, allorquando andò gradualmente riducendosi fino a quando non si fuse coi Sabelli-Sanniti che ne avevano il territorio, originando cosí (450-420 a.C.) gli Osci. Questi, raggruppati in tre federazioni, che facevano capo rispettivamente a Capua, a Nocera e a Nola-Abella, al secondo tentativo di invasione sannitica (IV sec. a.C.), si rifugiarono sotto la protezione di Roma, alla quale rimasero per la maggioranza fedeli fino alla seconda guerra punica, allorché Capua passò ad Annibale (216 a.C.). Di lì a qualche anno scomparvero come entità politica, ma avevano assolto ad un’importante funzione mediatrice tra la cultura greca delle nostre coste ellenizzate e Roma. Il loro nome sopravvisse per designare la lingua dei nuovi venuti, che gli antichi chiamarono «osco», e che era parlata dal Sannio alla Puglia da Sanniti, Frentani, Campani, Lucani, Bruzii, Mamertini e Apuli. Essa continua ad essere scritta in caratteri etruschi o greci e parlata a lungo in Italia, nei vari dialetti, dalle classi dirigenti e da quelle colte, fino alla guerra sociale che ne provoca la sostituzione definitiva con il latino. Infatti a Pompei, la città sepolta dall’eruzione del 79 d. C., sono state rinvenute delle scritte in lingua osca. Plinio il Vecchio (23\24-79 d.C.) ricorda l’agro-picentino come territorio etrusco e famoso per il santuario di Giunone Argiva fondato da Giasone.
Picentia, sicura fondazione o piuttosto denominazione di più antica città da parte dei Picentini sabellici di età sannito-romana, con altre città campane, quali Sorrento, Nuceria, Marcina, e detta ancora da Stefano Bizantino, nel V secolo d.C., «Picentia, città dei Tirreni». In questa zona, tra Picentia e il Sele, erano per Strabone (64\63-21 a.C.) i confini dell’antica Italia; infatti dai Greci erano chiamati Italioti i loro coloni stanziati nella Magna Grecia o Italia Meridionale. Ma il nome alla località di Picentia fu dato dai Romani, giacché nell’età arcaica pare che la zona fosse designata come Aminaia dalla città magno greca Amina. Precedentemente, sin dall’ultimo quarto dell’VIII secolo, il territorio aveva conosciuto considerevoli apporti materiali e culturali di Greci provenienti prevalentemente dai centri euboici di Pitecusa e di Cuma. Infatti intorno al770 a.C. gli Elleni avevano aperto un emporio precoloniale nell’isola di Ischia (l’antica Pitecusa) che presto divenne nodo fondamentale per il traffico commerciale nel Mediterraneo tra Oriente e Occidente; alcuni anni dopo essi fonderanno Cuma, la prima vera colonia greca d’Occidente. L’incontro con civiltà più evolute incise profondamente sul mondo indigeno e sui suoi comportamenti. Del resto il territorio fu a lungo zona di confine tra le due culture, prima pacificamente conviventi e in rapporti di reciproco florido commercio, poi avversarie e rivali per ovvi motivi di concorrenza, fino a quando i Greci di Siracusa, guidati dal tiranno Leone, non inflissero una grave sconfitta a questi Etruschi della Campania nella battaglia navale di Cuma del474 a.C. In quella che è stata definita l’età orientalizzante, indubbiamente i suoi secoli di maggiore prosperità, il centro agricolo di Picentia, favorito dalla collocazione costiera con l’approdo di un porto (ora interrato) alla foce del Picentino, scoprì la propria vocazione di emporio commerciale. Giungevano nella piana picentina i prodotti più diversi dall’Occidente e dall’Oriente (profumi, unguenti, ambra, avorio) e le tombe rinvenute anche a Pontecagnano (indubbiamente allora il centro principale di tutta la vasta e fertile pianura) ci hanno restituito corredi nei quali la ceramica indigena, ormai lavorata al tornio e su ampia scala, è rappresentata da una maggiore varietà di forme ed è affiancata dalla ceramica greca d’importazione o d’imitazione. Dall’Oriente giungevano pure oggetti di lusso in bronzo e in metallo prezioso. La compagine sociale divenne sempre più articolata: ormai strutturata per gruppi gentilizi, essa vedeva al suo vertice un’aristocrazia che si distingueva dal resto della comunità anche nel momento della morte con l’adorazione di un rituale funerario complesso di chiara origine ellenica. Ma queste manifestazioni funerarie tra il VI e il V secolo a.C. si manifestarono generalmente dimesse nella forma esteriore delle tombe e nella composizione dei corredi: segno di un periodo di crisi e del declino del mondo etrusco, per l’accennata e incalzante azione dei Greci, finalizzata all’acquisizione del controllo delle rotte marittime.
Eppure, nonostante la diffusione dell’uso della scrittura e la piena attività nella zona corrispondente all’odierno quartiere di S. Antonio a oriente di Pontecagnano, non possiamo che continuare a congetturare una storia picentina. Una storia che conobbe ancora un momento felice nel IV secolo a.C. Del resto in questo periodo tuttala Campaniafu interessata dal fenomeno della “sannitizzazione”, che ricondusse la regione a una maggiore omogeneità politica e culturale. Pur subendo l’influsso e il fascino della vicina Poseidonia l’agro picentino di quel tempo sembra conservare caratteri culturali originali, perché ancora compaiono sui vasi iscrizioni in dialetto etrusco. Ma in un breve volgere di tempo, nei primi decenni del III secolo a.C., la vita nell’agro Picentino si esaurì: le aree di necropoli non vennero più utilizzate e la città di Pontecagnano fu abbandonata. Le cause di tutto ciò ci sono ignote, ma è singolare e forse significativo che esso avvenisse proprio nel momento al quale le fonti antiche fanno risalire la fondazione della colonia romana di Paestum prima (273 a.C.) e di Picentia poi. La storia a questo punto ci è tramandata dalle fonti letterarie che registrano l’avvento dei Romani sulla scena del Tirreno, quando in un primo momento, insieme con i Pestani e i Salernitani e almeno fino alla vigilia della battaglia di Canne (216 a.C.), i fanti picentini si schierarono valorosamente dalla parte di Roma nella guerra annibalica, anche se essi erano stati deportati nel268 a.C. (proprio alla vigilia della prima guerra punica) dall’originario Piceno nel tratto costiero compreso tra Salerno e il fiume Sele.
La notizia ci e fornita da Stabone in questi termini: “Dopola Campaniae territorio dei Sanniti, fino ai Frentani, sul mare Tirreno abita il popolo dei Picentini, piccola parte staccatasi dai Picentini che abitano sul mare Adriatico e ora trasferita dai Romani sul Golfo Posidoniate che ora si chiama baia pestana”.
Da questo insediamento venne quindi il nome di ager picentinus. La ricerca archeologica non ha finora restituito testimonianze consistenti che siano riconducibili alla stagione nella quale visse Picentia. Occorre però considerare che, soprattutto per quanto riguarda l’area dell’antico abitato di Pontecagnano, il lavoro di scavo da compiere è ancora moltissimo e che qualsiasi realtà rappresentasse, Picentia era molto ridimensionata rispetto a quella dell’età preromana. Non è dunque da escludere che la mancanza di dati derivi dal fatto che ancora l’indagine non ha toccato l’area limitata nella quale avvenne la rioccupazione del territorio (III secolo a.C.). La guerra tra Roma e i Picenti era scoppiata nel 269 d.C., l’anno dopo la presa di Reggio. Questi, quando erano ancora stanziati nell’Italia centrale sull’Adriatico, a sud del flume Esinio, alleandosi coi Romani nel299 a.C. avevano cercato una difesa contro i settentrionali Senoni e contro i meridionali Pretuttii.
Ma, una volta distrutti i primi e soggiogati i secondi, il territorio spettante ai Romani chiudeva quello dei Picenti, impediti di espandersi. Proprio questa limitazione alla loro libertà dovette spingerli alla insurrezione. Furono però soggiogati con due campagne nel 269 e nel268 a.C. Così, secondo la prassi romana del divide et impera, ricordata pure da Catone nel De Senectute, una parte del loro paese fu incorporata nel territorio romano e un’altra confiscata; la popolazione fu deportata in quella regione compresa trala Campaniaela Lucania, più precisamente dalla destra del Sele al fiume Sarno, che ricevette cosi il nome di Agro Picentino.
Per godere della condizione di “colonia latina”, questa gente era tenuta a fornire, in caso di guerra, un contingente militare imposto e fissato ai vincitori nel trattato di sottomissione.
Ma si trattava di un popolo fiero della sua libertà che cercò ben presto di riconquistare alleandosi con Annibale (247-183/182 a.C.). Capua, Picentia e numerose altre città della Campania e dell’Italia meridionale, approfittando della pia grave sconfitta mai patita dai Romani, passarono dalla parte del Generale cartaginese. Ma questo, costretto ad abbandonare l’offensiva per mancanze di truppe, incalzato sempre più dai Romani, invano attendendo rinforzi dalla madrepatria dopo la sconfitta del fratello Asdrubale al Metauro (207 a.C.), fu costretto a ritirarsi nel Bruzio e poi ad accorrere in difesa di Cartagine (203 a.C.). Nel 204 i Romani espugnarono la città di Picentia e, dopo la definitiva vittoria di Scipione l’Africano a Zama (202 a.C.), finita la seconda guerra punica (201 a.C.), si vendicarono accanendosi contro gli alleati del figlio di Amilcare Barca.
I Picentini furono perciò severamente puniti e posti sotto la sorveglianza della nuova colonia cittadina “ad castrum Salerni”, deliberata, come ci tramanda Tito Livio (64/59-12/17 d.C.),nel197 a.C. con la “lex Atinia de coloniis deducendis” e dedotta nel 194. Picenza fu evacuata, abbattute le sue mura, i suoi abitanti sterminati o deportati ancora una volta.
Quelli che erano sopravvissuti furono costretti a vivere dispersi e separati per i territori circostanti o costretti a fare i tabellarii, cioè i corrieri al servizio di Roma. È ancora Strabone a fornirci questa informazione: “La capitale dei Picentini fu Picenza; ma ora essi abitano in villaggi sparsi, cacciati dai Romani, per aver fatto causa comune con Annibale. Invece del servizio militare fu a quel tempo loro imposto di servire lo Stato come corrieri e portalettere, come anche, per la stessa ragione, ai Lucani ed ai Brettii. I Romani in funzione di presidio contro i Picentini, fortificarono Salerno, “città poco elevata sul mare”. Ancora non domati i Picentini parteciparono all’insurrezione italica affiancandosi, durante il bellum sociale (90-88 a.C.), ai federati comandati dall’imperator sannita C. Papio Mutilo, accampatosi in Salerno. Ma, dopo alcuni successi in Campania, egli fu sconfitto da Lucio Giulio Cesare (90 a.C.) e da Caio Mario Silla (89 a.C.). Questi, secondo il Garofalo, si sarebbe accampato poco lontano da Picenza, in località ancora oggi chiamata Cupa Siglia presso Fuorni. I. Picentini subirono così la sorte delle altre città ribelli: rase al suolo dal crudele Silla.
Come ricorda Floro (I-II sec. d.C.): “Né al tempo di Annibale, né a quello di Pirro, si conobbero tante devastazioni: Otricoli, Grumento, Fiesole, Carsoli, Isernia, Nocera, Picentia vengono messe completamente al sacco con il ferro e il fuoco”.
Le popolazioni di nuovo furono disperse per villaggi, “vicatim et per pagos “, e nulla vieta di pensare che molti Picentini trovarono rifugio nelle zone più interne, nei territori appunto di Giffoni e dintorni.