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    I giffonesi hanno sempre economicamente sfruttato le naturali risorse agro-silvo-pastorali offerte dal loro territorio.
    Già le antiche genti che, trasmigrando dalla Piana, popolarono i vari villaggi sparsi per le zone pedemontane, coltivarono l’ulivo, la vite e il grano, e, dove c’era abbondanza di acqua, svilupparono successivamente anche la coltura, presto rivelatasi molto florida, del riso. Infatti la risicoltura appare già molto diffusa nel territorio del Picentino fin dal secolo XII. Queste floride risaie, alimentate da una fitta rete di canali per la regolare distribuzione delle acque del Picentino e dei suoi affluenti, prosperarono nei vasti comprensori di Fuorni, S. Leonardo, Montecorvino e anche di Giffoni, per molte migliaia di ettari, fino a quando il decreto Muratiano del 1/11/811 non vietò la coltivazione del riso. Il provvedimento, necessario indubbiamente per salvare il territorio dal flagello della malaria, se da una parte si rivelò dannoso per l’economia, dall’altra fece ricorrere a nuove colture, altrettanto redditizie: frutteti, agrumeti, vigneti, piante ortenzi di vane specie, ameni giardini, irrigati da una più razionale distribuzione delle acque. Però il periodo più opulento e di massimo splendore della popolazione giffonese è legato alle attività “industriali” e “commerciali” che fiorirono soprattutto nei secoli XV e XVI. Già verso la fine del Medioevo, infatti, erano cominciate a svilupparsi nella zona diverse attività artigiane e mercantili, come l’arte della lana, che nel corso dei secoli assunsero una importanza sempre maggiore. Furono soprattutto alcuni Ebrei, provenienti da Salerno, che specialmente a Giffoni gestirono banchi di pegno e industrie di lana grezza e nobile. Questi infatti già dal IX secolo avevano esercitato lucrosi mestieri nel nostro capoluogo, dove ebbero un quartiere tutto loro (Giudaica). Nei secoli successivi si erano affermati soprattutto come “banchieri”, mercanti di stoffe, tintori, abili artigiani di utensili domestici e di utili strumenti per la tessitura, la pesca, l’agricoltura, l’edilizia. Avendo il monopolio della macellazione delle carni, seppero anche conciare il cuoio, fabbricare otri caprini, adatti soprattutto alla conservazione ed al trasporto dell’olio. A Salerno erano stati senza dubbio i maggiori contribuenti della Chiesa, per la loro influenza sul mercato cittadino e per il loro ampio giro di affari, e quando nel XV secolo, anche per sfuggire ad una eccessiva imposizione fiscale, si decisero alla diaspora, essi si trasferirono con le loro attività commerciali e artigianali nei paesi limitrofi. Tra questi scelsero appunto il territorio di Giffoni. Nella sola Prepezzano, nel periodo di maggiore floridezza essi aprirono, ben tredici banche, e nel territorio si dimostrarono mercantilmente i più capaci, i più resistenti. Così soprattutto l’arte della lana, come principale fonte di benessere, consentì anche in queste zone, come in altre della Valle dell’Inno e della costa salernitana, il formarsi di un forte nucleo di ricche famiglie borghesi che rivestirono anche importanti cariche pubbliche e controllavano il commercio laniero della stessa capitale partenopea. La materia prima, proveniente prevalentemente dalla vicina Irpinia (Bagnoli e Solofra) o dalla Puglia (Foggia), era tessuta, colorata e confezionata nel territorio giffonese, tanto da far denominare i prodotti come gephonenses.
    Come ha ampiamente mostrato lo storico locale, Andrea Sinno, nel territorio dell’alto Picentino (comprendente appunto i paesi di Giffoni, Prepezzano, Sieti e S. Cipriano) esisteva nel Cinquecento un rigoglioso allevamento ovino, fonte di cospicui guadagni per molte famiglie. Fra queste, una delle più ricche del tempo, fu la rinomata famiglia Cioffi, la quale oltre all’allevamento ovino, possedeva una completa attrezzatura industriale: cellari, per la cardatura della lana, botteghe per la filatura, gualchiere per il lavaggio, tintorie, presse, ecc. Con la lana si confezionavano dai semplici drappi, agli abiti, ai coloratissimi berretti (anche questi ultimi noti come birretti giphonenses diversorum colorum), smerciati in tutto il Regno e soprattutto in occasione della fiera locale che ancora oggi si svolge annualmente il 15 agosto accanto alla chiesa di S. Maria a Vico, e di quella salernitana di settembre, dove i panni ben tessuti e gualcherati trovavano facile smercio. Lungo i corsi d’acqua affluenti del Picentino e del Tusciano era praticata pure la coltura della canapa, del lino e della seta, le cui fibre venivano utilizzate soprattutto per la manifattura di tessuti pregiati.
    La seta, intessuta con oro, secondo l’arte importata in Giffoni dai Maestri toscani durante il secolo XV, era adoperata per la manifattura di drappi lussuosi. Le fibre di lino erano largamente usate dalle monache dei monasteri per la preparazione degli arredi sacri e dalle madri di famiglia per il corredo nuziale delle loro figlie. La canapa, infine, era utilizzata per la fabbricazione di vele e cordami, molto richiesti in tutti i mercati della Provincia. Dai fabbricanti giffonesi i manufatti erano affidati, anche per sfuggire al dazio o canone dovuto al feudatario per il suo jus esercitato sull’Arte e sui fabbricati nella drapparia, a mercanti che ne curavano la vendita. Tramite costoro si intrecciarono così contatti e commerci con altri canti vicini e lontani: fiorentini, senesi, genovesi, siciliani e addirittura spagnoli. Appunto nel XVI secolo, precisamente nel Concistoro del 6/3/1531, il fiorentino Giulio de’ Medici, Papa Clemente VII (1523-1534), su relazione del cardinale dei Santi Quattro Coronati Lorenzo Pucci, eresse Giffoni a diocesi, elevò la chiesa della SS.ma Annunziata in Mercato a Cattedrale. con la costituzione di un Capitolo, e nominò come primo vescovo Innico d’Avalos, Vescovo di Aquino. Questi però mai prese possesso della diocesi, data in amministrazione al Cardinale Pompeo Colonna. Ma la nuova diocesi sembra essere ignorata dagli Atti pontifici successivi, tanto che il vescovo di Acerno, Colangelo Oliviero, il 4/11/1565, poteva attestare che “lo casale de Gauro de Jefuni è subietto allo spirituale a la mensa episcopale de santo Donato de Acierni, nostra iurisdittione ne la poxessione del quale semo stati e semo, et lo resto de Jefuni sta subietto a lo arceviscopato de Salerno”. Il Pontefice aveva accolto la richiesta del feudatario locale, Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, fatta pervenire a lui e al re Carlo V. Ma prima le motivazioni addotte dall’Arcivescovo di Salerno, il cardinale Nicola Ridolfi (1533-1548), che dimostrò come non esistesse alcun motivo per l’erezione di una diocesi vicinissima a Salerno, una diocesi poi costituita da un agglomerato sparso in un luogo non ricco di storia, e più ancora successivamente l’energica opera restauratrice di Girolamo Seripando (1554-1563), dopo un dissidio giurisdizionale protrattosi per oltre un ventennio, avevano fatto recederela S. Sededella decisione presa. Un alto segno della florida condizione giffonese nei secoli XV e XVI è dato dalla presenza in loco di maestri di Grammatica, dei quali però ci è stato tramandato solo il nome dell’eugubino Giovanni Musefilo (1450 ca-1512). Infatti le famiglie più facoltose ambivano dare un’istruzione ai propri figli, necessaria anche per la conduzione dell’attività imprenditoriale dalla quale esse traevano non solo il loro sostentamento. Proprio il predetto umanista, in una supplica inviata a Carlo VIII dopo la sua occupazione del regno di Napoli, nel 1495, per ottenere la riconferma di una concessione fattagli dai precedenti feudatari, dichiarava di aver atteso per ben 20 anni. Oltre al marchese Innico D’Avalos e ai suoi figli, per i quali compose le Lectiones  Grammaticae, egli ebbe diversi alunni prima di ricoprire per cinque anni l’incarico di Lettore presso lo Studio partenopeo; e proprio per la sua permanenza a Giffoni fu, nei documenti, qualificato come giffonese. Il Silvestri nel suo studio ricorda pure altri “tre sconosciuti educatori” Contemporanei del Musefilo: “Magister Bernardinus quondam magistri iecti… domus Rencius Marotta ed il nobilis Bactista De Russis”. Ritornando all’economia, oltre alle gualchiere e alle tintorie, lungo i corsi d’acqua e nelle valli di Giffoni, già dal XIV secolo, si erano impiantate altre attività che presto si rivelarono anch’esse molto redditizie: macine, mulini, serie, ramiere, ferriere, industrie di laterizi ecc. Così in Giffoni, in S. Cipriano Picentino e nei paesi vicini nel XIV secolo si  armarono i primi imprenditori capitalisti, che costruirono i loro opifici, le loro drapperie, le vastandere, le balchere, le tintorie, assumendo mano d’opera e accentrando nelle loro mani gran parte dell’artigianato e del commercio minuto. Infatti una caratteristica assunta in Giffoni dall’Arte della lana, per la maggiore varietà dei prodotti che richiedeva evidentemente una più complessa attrezzatura per la manifattura dei tessuti fu l’accentramento di tutte le attività mercantili attorno alla grande Drapparia. Su questa nel XVI secolo, esercitava i suoi diritti feudali il marchese di Pescara che aveva contribuito all’esercizio dell’Arte con l’apporto dei suoi capitali. Fu infatti il feudatario che verso la fine del secolo precedente aveva fatto venire a Giffoni i fratelli fiorentini Gerardo e Filippo Bartoli a insegnarvi l’arte di fare panni di lana. Sviluppatasi, questa classe imprenditoriale, pur con alterne crisi, riuscì ad imporsi in tutto il Regno di Napoli, almeno fino alla seconda metà del XVII secolo.
    Essa dimostrò di possedere, oltre ai mezzi, anche e soprattutto maggiore capacità organizzativa e dinamicità. I nomi delle numerosissime maestranze (che però abbastanza presto vennero dai paesi limitrofi, soppiantando quelle locali) che si dedicarono soprattutto a finanziare la redditizia arte della lana, sono tutti meticolosamente registrati, sulla scorta di antichi atti notarili diligentemente compulsati e segnalati, nella citata opera di Sinno. Ma poi i capitali, precedentemente investiti per rendere più efficienti le attrezzature industriali e più ampio il giro d’affari, furono dirottati verso più sicure, anche se meno redditizie compere di beni immobili, di castagneti, vigneti o oliveti, oppure in attività più propriamente bancarie, come quelle dei pubblici banchieri Rinaldo e Citarella della fine del XVI secolo. Quindi fu soprattutto il Cinquecento l’epoca di maggiore floridezza e prosperità economica picentina e della maggiore valorizzazione civile di quei centri che oggi costituiscono i comuni di Giffoni, S. Cipriano e Castiglione.
    Poi il disordine politico e amministrativo e le lotte tra il potere centrale, i baroni e i Comuni, con l’aggiunta di altre calamità, quali carestie, pestilenze e la concorrenza di altri opifici più progrediti tecnologicamente che andavano sorgendo nei diversi Paesi europei, nonché il brigantaggio, causarono la decadenza, il tracollo economico e il ritorno nell’ombra di queste industriose popolazioni. Soprattutto i progressi tecnologici, l’accentramento di capitali nelle mani di aziende di larghe possibilità finanziarie, la creazione di nuovi sistemi di produzione ebbero facile sopravvento sulle più modeste aziende a conduzione familiare che nella nostra Provincia si contavano in gran numero e che avevano dato benessere e agiatezza a larghi strati della popolazione. A nulla valsero i tentativi riformistici dei Borboni che intesero facilitare i commerci migliorando le reti stradali e favorendo una paternalistica ripresa delle attività artigianali.
    Intanto se a Salerno nella prima meta dell’Ottocento giunsero gli Escher, i Wenner, con le loro moderne macchine tessili, le grandi turbine, le decine di migliaia di fusi, le centinaia di operai, che mandarono in crisi gli imprenditori locali che lungo la valle dell’Irno dirigevano i loro opifici con la manodopera casalinga di una numerosa protoindustria laniera, a Giffoni ancora conobbero una certa prosperità le ramerie; ma poi anche qui repentinamente molto critica si fece la situazione manifatturiera: produzione e numero dei laboratori diminuirono fino ad estinguersi completamente alla fine del secolo.

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